Sicilia Fantasma


Sicilia Fantasma è una raccolta di visioni personali sulla Sicilia, fotografate tra il 2012 e il 2018.
Questa operazione di ‘restituzione’ del territorio attraverso una serie di paesaggi, vive nel desiderio di generare relazioni su più livelli di lettura tra l’osservatore e gli spazi rappresentati, riflessioni oltre la superficie estetica propria della ‘veduta’ fotografica.
Stabilire un punto di riflessione critica sul chi siamo in relazione alle caratteristiche dei nostri spazi nel nostro tempo.
La critica, così come la intendeva Luigi Ghirri, vuol essere un nodo dialettico e non un assunto, portando nella complessità elementi di inquietudine più che di denuncia o idealismo fine a se stesso. Ecco che Sicilia Fantasma assume, nella sintassi delle sue sequenze, la posizione di manifesto politico.
David Goldblatt sosteneva che ‘gli eventi in sé non sono interessanti come le condizioni che conducono ad essi’ e in tal modo questo lavoro rappresenta uno specchio che riflette un’appartenenza a un territorio, un esercizio di lettura degli spazi e di ciò che in essi vi occorre per cercare e comprendere e riposizionare le nostre azioni, sensazioni, relazioni e responsabilità nei riguardi della terra, quindi di noi stessi.


'Didascalia'
di Roberto Boccaccino

I testi sono la rovina delle immagini. Si è sempre creduto il contrario, ovvero che le immagini rubassero l’attenzione alle parole. Ma il danno più grave, in verità, accade viceversa, quando pur di non leggere un’immagine ci si rifugia nella didascalia.
E il testo finalmente ci spiega che in quelle immagini c’è un’inquietudine, c’è un mistero, c’è una rabbia: eccolo il significato. E così l’inquietudine sparisce, assieme al mistero e alla rabbia. E l’immagine diventa storia, narrativa, contenuto.
E invece le fotografie non sono un contenuto, non devono esserlo. Le fotografie sono cornici. Le fotografie ti mettono in relazione, ti forzano a guardare solo un pezzo e a pensare se quel pezzo lo riconosci o meno, se sai quale parte di te c’è dentro quel paesaggio, se è lo stomaco per accettare tutto questo, oppure il fegato di essertene andato lontano, se è la gola, o la faccia, o il sangue.

E che effetto fa sapere che si appartiene a qualcosa che non si riesce a riconoscere? Tu come ti senti rispetto a questo? Sei in pace? Ti ritrovi? Ti sembra una storia dell’europa dell’est? Non ti riguarda? Che effetto fa sentirsi coinvolti in un paesaggio che non si risolve mai, in un amore che non riesce mai ad essere il proprio?

Per questo le fotografie vanno lasciate mute. Perchè il loro vero significato abita tutto in quella spiegazione rassicurante che non arriva mai, che ti direbbe stai tranquillo, questo posto è lontano, oppure è proprio lì. Una spiegazione grazie alla quale ti riposizioni, mentalmente, annullando quel sibilo, quella dissonanza. Mentre il senso delle fotografie oggi forse è proprio quel rumore di fondo. L’inquietudine che resta.
Riuscire a riposizionarsi davanti ad un’immagine utilizzando nomi, o titoli, o coordinate geografiche significa annullare una riflessione, una relazione reale con il territorio. Vuol dire annullare, insomma, il paesaggio.

Crediamo di essere ovunque e invece siamo quasi sempre qui. E arriva il momento in cui ne abbiamo abbastanza della nostra libertà di essere quello che vogliamo. Perchè anche questa, come tutte le altre, è una libertà illusoria, fittizia. Una libertà la cui principale conseguenza, se non l’unica, è stata quella di renderci distanti.
Il territorio è il primo scenario in cui esercitiamo e pratichiamo questa distanza. Non so se siamo liberi, ma sicuramente siamo lontani. E se davvero ci siamo allontanati credendoci liberi, allora viva le fotografie, quelle senza le parole, perchè ci costringono.